Definizioni di cui non si sentiva il bisogno

By Pierpaolo Alessio on 18 Novembre 2014 — 5 mins read

Il design.
Di design.
Design.

Ognuno di noi quando sente queste parole tra altre, richiama alla mente una serie di immagini, sensazioni, oggetti, icone, particolari. Pochi hanno una chiara idea di cosa sia il design. Molti professionisti, molti studenti, molti professori, critici, giornalisti, semplici appassionati e persone di dubbio gusto pensano di conoscere e saper definire il design. In realtà tutte queste persone hanno un’idea confusa e distorta del design. Pare ci sia la consuetidine di fidarsi degli storici, ma Gillo Dorfless (l’unico in grado di definire la differenza tra arte, artigianato artistico, artigianato e design) è esposto al museo egizio e tutti quelli che hanno scritto libri sulla storia del design hanno solamente dimostrato di non poter imbrigliare dentro categorie desuete un fenomeno storicamente scostante.

Quindi come fare per chiarire a noi stessi cosa è design e cosa non lo è? Partiamo da lontano. Innanzitutto chiariamo subito che se di design vogliamo parlare, si parlerà di design inteso come progetto. Progetto inteso come definzione di intenti volta a risolvere una problematica nelle esigenze dell’utenza. Utenza intesa come una entità vivente che soffre, perchè le manca qualcosa per essere completa. Quel qualcosa può avere molti nomi. Comfort, lavoro, cibo, acqua, riparo, istruzione, spazio, identità o perfino libertà. Sappiamo che il design non ha salvato molte persone dalla “fame nel mondo” ma sicuramente ha migliorato la vita a qualcuno negli ultimi duecento anni. Spero.

Non parleremo mai di design inteso come stile fine a se stesso. Non mi venite a raccontare che la carrozzeria di ogni automobile è “di design”. Peter Behrens si sta rigirando nella tomba.
Non parleremo quasi mai di grafica fine a se stessa. Non mi venite a raccontare che la grafica di quel sito o di quella rivista è design. Kolo Moser si sta rigirando nella tomba.
Nonostante tutte queste premesse, prendete la definizione di design che vi sta più a cuore. Wikipedia, De Fusco, Dorfless, Ciribini, professori e rettori, tanto sono tutte uguali, incomplete e faziose, con uno sguardo al passato si, ma le mani sui soldi degli imprenditori del futuro.

Da cui si evince che il design è diventato un “trucco della borghesia” (cit.) che ci perseguita da anni ormai. Ci hanno persino creato attorno interi corsi, facoltà universitarie, scuole private, accademie, master. Un business anhe questo che crea non poca confusione, tutti convinti di essere il nuovo Bauhans. Ogni volta che qualcuno nomina il design come panacea di un problema inesistente, ogni volta che un archistar viene applaudito per aver espletato una nuova sedia o un tavolo o un qualunque ninnolo, un progetto vero muore nella giungla delle università pubbliche e private di tutto il mondo, dalla Royal School di Londra al peggior ateneo di Nuova Delhi.

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Il design per come lo hanno pensato i signori che lo hanno praticato con profitto prima della seconda guerra mondiale era volto al benessere pubblico e del pubblico, al miglioramento della vita dell’uomo moderno, al superamento di quel fosso (gap) che c’è tra la felicità e la povertà. Povertà intesa come aridità dell’animo, non finanziaria. Il design interpretato dai signori definiti i “maestri del design” del secondo dopoguerra ha interpretato benissimo i desideri del boom economico rendendosi prima borghese, poi elitario e infine un bene di lusso, superfluo, eccessivo. Questa connotazione del design avrebbe fatto ribollire di rabbia Ford, [inserire nome del tuo designer del secondo dopoguerra preferito/a]  non perché si discosta dalle loro ideologie di progetto, ma per la deriva di isolamento dalla massa. La massa è il vero obbiettivo del designer, non i tre emiri e le quattro rockstar che si possono permettere un tavolo stampato in 3D in fibra di travertino toscano, sintetica, che riproduce le radici di un albero di baobab con un ripiano di vetro antiproiettile antisfondamento anticarro. Per giunta storto. “Ma è una scelta concettuale che lo contestualizza” dirà il critico, “assorbe le sue funzioni e soddisfa le esigenze fondamentali” continuerà, “e risolve le problematiche relative alle problematiche relative alle problematiche relative alle…” ad libitum. (cit.)

Per fortuna qualcuno abbastanza sveglio da capire che si può fare design guardando alla massa, a tutte quelle persone che bramano una soluzione creativa, intelligente e che nasconda la complessità progettuale dietro una linea formale razionale e leggera. Peccato che queste realtà multinazionali lavorino in modo così asettico e generalizzato da non poterlo definire apertamente design senza ritorvarsi ricolperti di insulti accademici.

In tutto questo clima non c’è discussione. Non c’è dibattito. Non c’è nemmeno competitività. Ognuno gioca nel suo cortile e apparentemente non guarda nemmeno quello del vicino. Anzi. Si applaudono a vicenda alle presentazioni, alle mostre, alle fiere, alle triennali, alle sfilate, alle premiere, nei salotti e nei loft e nei quartieri e nelle città più “à la page”. Per poi smetire tutta la melassa appena divulgata al giornalista o al critico o al blogger di turno sputando sul lavoro dei colleghi, amici e nemici. Il tutto senza minimamente pensare che se pronunciassero almeno una parola di disappunto, l’intero sistema design farebbe enormi passi avanti. Creando una discussione vera, con più di 140 caratteri, in lettere, articoli e libri, il design si è evoluto fino ad ora. Potrebbero anche bastare poche parole, senza giudizi, ma critiche alla forma, alla funzione, alla coerenza del progetto. Questo potrebbe aiutare il prossimo design, quello che ancora non ci sogniamo.

Non pensate nemmeno per un momento che io abbia una soluzione per tutti i problemi di cui ho scritto, né che mi voglia lamentare all’infinito della situazione politica del design. Ho solo notato che nessuno ne parla più e mi sono stufato di questo clima di buonismo, sarcasmo forzato e correttezza con la garrota. E sono stufo di non avere un lavoro vero per questo motivo.

L’unica cosa che mi sento di fare è smontare pezzo per pezzo gli orrori del Design (maiuscolo) del passato e del presente, per capire se si può ancora parlare di design (minuscolo) o si rende necessario creare una nuova definizione, un nuovo termine per definire questi interventi progettuali che non soddisfano nessuna esigenza.

Originariamente pubblicato su Medium

Posted in: Design